giovedì 7 giugno 2007

Heinrich Schliemann (9): l'epilogo

Oramai al colmo della gloria e del prestigio, Schliemann pensa a coronare l’opera della sua vita con un’ultima memorabile impresa. Dopo aver esplorato la Troade e l’Argolide, dopo aver scoperto il tesoro di Priamo, le tombe dei re di Micene e la dimora dei principi di Tirinto, il tedesco pensa a Creta, la leggendaria isola di Minosse che occupa un posto rilevante nell’epopea omerica. Accompagnato dal fedele Dorpfeld, sbarca nell’isola e va a visitare il sito di Cnosso.
Il luogo è pieno di promesse. In superficie si possono notare i resti di costruzione che somigliano, secondo Schliemann stesso, ai resti del palazzo di Tirinto. Decisamente vale la pena scavare questo sito che può, in definitiva, essere quello della dimora del primo imperatore dei mari.
Lo scavo di questo palazzo deve coronare le imprese archeologiche di Schliemann, al punto che scrive: “Vorrei concludere l’opera della mia vita con una grande impresa: lo scavo del più antico palazzo preistorico di Creta, quello di Minosse”.
Ma prima di scavare, bisogna acquistare i terreni. Sopra la collina dove presumibilmente sorgeva il palazzo di Cnosso è piantato un oliveto. Cominciano le trattative tra Schliemann e un bisbetico proprietario terriero cretese. Il prezzo proposto al tedesco in cambio del terreno è esorbitante: 100.000 franchi aurei. Dopo discussioni interminabili, le due parti si mettono d’accordo per una somma di 40.000 franchi.
Rimane solo da firmare l’atto. Schliemann è felice; finalmente potrà realizzare il suo ultimo sogno. Il tedesco s’imbarca per Creta e giunge a Candia. Prima di apporre la firma in calce all’atto notarile, decide, da buon commerciante, di gettare uno sguardo alla sua futura proprietà. Ed ecco la sopresa: nel frattempo il cretese ha spostato i confini del terreno e invece dei 2500 ulivi di cui parla l’atto di vendita, Schliemann riesce a contare soltanto 888 alberi sulla terra che si appresta a pagare. Le cose non vanno. I due uomini litigano furiosamente, rompono le trattative e infine, disgustato, Schliemann abbandona l’idea di scavare il palazzo di Cnosso.
È quindi per soli 1612 ulivi che lo scopritore di Troia, di Micene e di Tirinto lascia ad altri l’onore e l’onere di riesuamare i resti della reggia di Minosse.
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi

mercoledì 6 giugno 2007

La chanson de Roland: i temi e i personaggi principali

TEMI GENERALI
Senso dell’Onore. Gano si sente ferito nell’orgoglio da parte di Rolando e trama la vendetta. Rolando non vuole suonare l’olifante perché vuole dimostrare il suo eroismo e onore in battaglia. Rolando ferito a morte cerca di rompere la sua spada (Durlindana) per non farla cadere nelle mani degli infedeli. Marsiglio si suicida per non cadere nelle mani di Carlo.
Eroismo in battaglia. Rolando, pur essendo cosciente che i saraceni erano numericamente superiori al suo esercito, combatte eroicamente contro i Saraceni.
Lealtà verso il Sovrano. Rolando muore in battaglia per proteggere il ritorno in patria del sovrano. Rolando e il suo esercito combattono sempre fedelmente affianco a Carlo.
La fede in Cristo e nella Chiesa. La guerra contro i saraceni è stata combattuta per far convertire gli infedeli portando il Cristianesimo nel mondo allora conosciuto. La comparsa dell’Arcangelo Gabriele. La forte fede in Dio di Rolando e degli altri personaggi principali.Da segnalare anche i dodici Pari che richiamano il Cristianesimo (i dodici Apostoli).

PERSONAGGI PRINCIPALI

ROLANDO. Per le sue imprese, l’imperatore gli donò la contea di Anglante e lo voleva tra i dodici pari, i suoi migliori amici, consiglieri del re e paladini della cristianità. D'altra parte, il papa lo onorò del titolo di senatore di Roma e magistrato della Chiesa. Milone fu ucciso dai saraceni, e sua madre fu costretta a spostarsi di col conte Gano di Meganza, non degno di fiducia, e con cui Orlando era sempre in contrasto. Successivamente, l'imperatore assediò Vienne, difesa da un valoroso cavaliere, Oliviero. Per porre fine alla guerra, Orlando accettò di sposare la sorella di Oliviero, Alda la Bella.
GANO. È un paladino di Carlo Magno, che tradisce la propria patria svelando ai Saraceni il modo per cogliere di sorpresa la retroguardia franca di ritorno dalla Spagna. A capo di essa c'è Rolando, il suo figliastro odiato, che esita a suonare l'Olifante per chiedere soccorso, causando così la propia morte e dei suoi compagni.La retroguardia viene sconfitta, ma Gano avrà una punizione orribile per il suo tradimento: sarà squartato vivo e i suoi resti bruciati e sparsi al vento.
Pierpaolo C., Eugenio G., Marco P.

martedì 5 giugno 2007

Lucano: l'elemento soprannaturale

Virgilio è visto come colui che aveva ammantato con un velo di mistificazioni la fine della libertà romana e la trasformazione della res publica in un regime tirannico. Per “sconfessare” Virgilio era necessario mostrare come il potere del principe non avesse i fondamenti divini che nell’Eneide gli venivano attribuiti attraverso la rievocazione di antiche favole mitiche, ma si fondassi invece sulla distruzione violenta delle istituzioni repubblicane; è questo, a ben guardare, il vero motivo della rinuncia all’apparato delle divinità, e dell’andamento di “storia versificata” tanto spesso rimproverati alla Pharsalia. Gli intenti di Lucano richiedevano infatti un mutamento dell’oggetto del poema epico: non la rielaborazione di racconti mitologici, ma la esposizione di una storia recente, ben documentata, ampiamente nota ai lettori; una scelta programmatica di fedeltà alla verità storica.
[…]
L’abolizione dell’apparato divino è in parte compensata, nel poema di Lucano, dalla forte presenza dell’elemento “meraviglioso” o soprannaturale: sogni, visioni, profezie e pratiche magiche. Non diversamente da quella dell’Eneide, la narrazione della Pharsalia si dispone intorno a una serie di profezie, le quali tuttavia rivelano non le glorie future di Roma, ma la rovina che la attende.
Nella sezione finale del libro I, una serie di prodigi e di sconvolgimenti naturali sembra annunciare il divampare delle guerre civili. L’interpretazione dei segni divini è affidata a Nigidio Figulo, l’erudito e astrologo, vicino alla credenze neopitagoriche, che era stato anche un irriducibile oppositore di Cesare. Le parole di Nigidio Figulo ribaltano la profezia sulla futura grandezza di Roma, con la quale il Giove dell’Eneide aveva risposto all’accorata domanda di Venere (I, 244) quem das finem, rex magne, laborum? (“Quale fine, o grande re, tu fissi ai travagli dei Troiani?”). Nigidio Figulo asserisce infatti che non ha senso chiedere agli dèi di porre termine alle sofferenze di una Roma sconvolta dalle guerre civili: la pace che a esser succederà si identificherà con la tirannide del nuovo regime imperiale (Phars., I, 669 s., et superos quid prodest poscere finem? Cum domino pax ista venit: “e a che serve chiedere agli dèi una fine? Codesta pace arriva con un tiranno”).

Citroni - Consolino - Labate - Narducci, Letteratura latina, Laterza

Heinrich Schliemann (8)

Schliemann è ormai celeberrimo e niente e nessuno sembra più in grado di opporglisi, neanche la burocrazia turca.
Sull’onda dei suoi strepitosi successi, sollecita un nuovo permesso di scavo a Troia e lo ottiene. Nel 1878 lo ritroviamo così nella Troade, alla testa di un’équipe di centosessanta operai.
Schliemann è sostenuto nelle sue ricerche da Rudolf Virchow, il più famoso degli specialisti di preistoria tedeschi. Oltre a Virchow, il francese Emile Burnouf segue le nuove ricerche a Troia. La campagna durerà fino al 1883.
Schliemann ha capito che scoprire tesori è importante, ma che la disciplina archelogica richiede ben altro: bisogna poter disporre di piante precise e aggiornate che consentano di collocare al loro punto effettivo di ritrovamento gli oggetti rinvenuti, di ripercorrere le tappe delle scoperte, di interpretare i resti recuperati. Bisogna quindi poter contare sulla presenza di architetti e disegnatori competenti.
Per fortuna sua e nostra, Schliemann incontra Wilhelm Dörpfeld, che gli fornirà l’apporto scientifico di cui i suoi lavori hanno bisogno.
Purtroppo per l’archelogia, l’équipe dovrà affrontare mille difficoltà poste dalle autorità turche. Un militare bersaglia letteralmente la spedizione archeologica. Si tratta di un comandante d’artiglieria, convinto che i lavori intrapresi da Schliemann e dai suoi collaboratori siano soltanto un pretesto per fare il rilievo di alcune fortificazioni del tracciato dei Dardanelli. Perciò vieta assolutamente a Dörpfeld e ai suoi assistenti di utilizzare qualsiasi strumento sugli scavi. Non solo: non potendo leggere e capire quello che si scrive sul cantiere, il comandante impedisce che si prenda la minima nota, che si faccia il più insignificante dei rilievi e minaccia persino di arresto immediato chiunque si azzardi a contravvenire ai suoi ordini.
Schliemann è scorato. Nel 1884 ritorna in Argolide. Dopo aver scavato con successo le tombe dei re di Micene, decide di esumare i resti della fortezza di Tirinto. La campagna di scavo nel secondo grande palazzo miceneo di Argolide si conclude nel 1885.
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi

lunedì 4 giugno 2007

L'Orlando furioso: la trama e il personaggio principale

La trama

Carlo Magno, preoccupato delle rivalità che Angelica ha acceso tra i cavalieri innamorati di lei, affida la fanciulla al duca Namo di Baviera, promettendola a chi più si distinguerà nello scontro imminente. Ma i cristiani vengono sconfitti e Angelica, approfittando dello scompiglio che regna nell’accampamento dei franchi, fugge. Sulle suo orme si lanciano i paladini innamorati: ha così inizio l’intreccio vorticoso e fantastico di duelli magie e battaglie. La trama è intricata e non obbedisce a un unità d’azione prefissata. È possibile tuttavia individuare tre linee principali, attorno alle quali si intrecciano i mille fili del poema. La prima è la guerra tra cristiani e saraceni, nel momento in cui questi ultimi, dopo avere sbaragliato l’esercito di Carlo, stringono d’assedio Parigi.La seconda è la storia di amore di Orlando, il più valoroso dei cavalieri di Carlo,per Angelica,la figlia del re del Catai, la quale continua per tutto il poema a essere preda, inseguita e mai raggiunta, di cristiani e saraceni.Orlando addirittura impazzisce d’amore, quando apprende che lei ama Medoro,un umile soldato che ha raccolto ferito sul campo di battaglia, ha curato e poi sposato. Orlando ritroverà la ragione solo grazie ad Astolfo,che, a cavallo dell’ ippogrifo,un magico cavallo alato, andrà sulla luna a recuperarla. La terza della vicende principali è il contrasto amore tra Bradamante, sorella di Rinaldo e valorosa guerriera cristiana, e Ruggero; cavaliere saraceno che ignora di essere nato da genitori cristiani.

Il personaggio principale

Orlando: signore di Anglante, cavaliere di Brava, è spesso indicato come «il conte», senza altro titolo; è nipote di Carlo Magno per parte di madre: presentato costantemente come il più dotato degli eroi cristiani e come il più eroico dei Paladini. Peraltro fin dagli inizi del poema appare irretito nella passione per Angelica e spesso distratto dai suoi doveri di difensore della Croce e della Spada, della Chiesa cattolica dell'Impero di Carlo Magno.
Elvira D., Marta C., Laura P.

domenica 3 giugno 2007

Il Cantare dei Nibelunghi: introduzione e trama

INTRODUZIONE

Il Nibelungenlied, oppure Canto (Canzone) dei Nibelunghi è un poema che racconta le peripezie dell'eroe Sigfrido al palazzo dei Burgundi, e della rivalsa di Crimilde, sua moglie, che porta a una fine dannosa e alla morte dei protagonisti.

TRAMA

Sigfrido, figlio dei re dei re del Niederland Sigismondo e Siglinde, se ne andò dal suo castello per fare visita ai quattro regni del nord e per imparare nuove tecniche d’armi. Dopo poco tempo fece conoscenza con il nano Regin che gli diede il compito di assassinare un drago che aveva il celebre “tesoro dei Nibelunghi”.Sigfrido uccise il drago e il nano, perché gli fu detto dal drago, al punto di morte, che era cattivo.
Sigfrido si tuffò nel sangue del drago e diventò immortale, ma danzando una foglia gli si posò tra le scapole e in quel momento divenne il suo “Tallone d’Achille”. Tra tutte le ricchezze del tesoro, Sigfrido scelse solamente un anello d’oro rosso, che gli permetteva di avere tutto l’oro che voleva, ed un elmo che gli permetteva di essere invisibile. In una montagna infuocata egli vide un guerriero accovacciato a terra e si rese conto che stava soffocando per via della sua pesante armatura e con una colpo di spada la taglio e incontrò una bellissima ragazza,Brunilde, regina dell’Islanda. Sigfrido e Brunilde si innamorarono e, come “garanzia” d’amore Sigfrido, le regalò l’anello d’oro rosso e le giurò raggiungerla nella terra in cui era regina. Sigfrido viaggiò ancora, e si imbatté nel regno dei Burgundi, la cui capitale era Worms; il re Gunther lo ospitò nel suo palazzo, Hagen, gli porse un calice di vino avvelenato che gli dimenticare la promessa che egli fece a Brunilde, e si innamorò della sorella del re: Crimilde. Il re seppe che in Islanda vi era una regina di nome Brunilde e chiese a Sigfrido di aiutarlo a conquistarla; Sigfrido prese in moglie Crimilde e Gunther prese Brunilde. Hagen si fece dire da Crimilde quale era il punto debole di Sigfrido e lei suggerì di disegnare una crocetta sul vestito del eroe; Hagen venne portato dall’eroe in una sorgente di acqua fresca e quando l’eroe si inginocchiò per bere, Hagen lo colpi sulla crocetta cucita da Crimilde, uccidendolo. Dopo una ventina d’anni dalla morte di Sigfrido Crimilde fu convinta a risposarsi, sposando Attile, re degli Unni. Voleva rivendicare Sigfrido, ma provocò la morte di numerosi guerrieri Unni, uccisi dai Burgundi durante lo scontro; Hagen soppresse anche il figlio di Crimilde e Attila: Ortelieb. Infine fecero prigioniero Hagen e, livida di rabbia per tutto il male che le aveva fatto, cosicché Crimilde uccise Sigfrido. Hildebrand seppe che Crimilde aveva fatto fuori Hagen e la fece uccidere.
Andrea B., Salvatore L., Giacomo T.

sabato 2 giugno 2007

La Gerusalemme liberata: le origini del poema e la trama


Le origini del poema

Nel 1558 i pirati saraceni, approdati sulle coste della Campania, distrussero parte della città di Sorrento.
Questo accaduto generò in Torquato un sentimento di timore e sdegno nei confronti del mondo islamico.
Proprio in quel periodo di forti tensioni, quando i Turchi minacciavano l’Occidente cristiano, a Roma, la Chiesa non previde una possibile invasione musulmana dell’ Europa.
Il contrasto fra Islam e il Cristianesimo, interessò particolarmente Torquato; approfondì infatti la questione sulle crociate con opere come la “Historia Belli Sacri” di Guglielmo Tiro (cronaca medievale della prima crociata).
Poemi come l’Orlando Innamorato (Boiardo) e l’Orlando Furioso (Ariosto) lo influenzarono riguardo la minaccia e la pericolosità dei popoli musulmani; questi infatti nelle fantasiose opere degli autori, venivano sempre votati alla sconfitta.
Quando nel 1559 Torquato Tasso si trasferisce a Venezia, incominciò a prendere atto di una diversa visione di Oriente.
Nella città infatti gli scambi mercantili con paesi orientali rendevano ricca l’Europa; proprio qui l’autore incominciò a comporre i suoi primi scritti riguardanti l’argomento che più prediligeva. Abbozzò circa 116 ottave.
Concluse l’opera nel 1575 e venne pubblicata integralmente nel 1581 con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla pubblicazione del poema il poeta riscrisse e modificò la maggior parte delle scene amorose, con lo scopo di accentuare il tono religioso e epico della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme Conquistata.

La trama

Goffredo di Buglione, signore feudale della Lorena, nel sesto anno di guerra (durante la prima crociata) raduna i crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Un crociato, Trocedi, viene sfidato a duello da un temibile guerriero musulmano. Da questo scontro dipende l’esito della guerra, chi vince il duello di conseguenza vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il giungere della notte e rinviato. I diavoli si schierano dalla parte deimusulmani, con l’intento di far vincere loro la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con uno espediente riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani in un castello incantato tra cui Tancredi. L‘eroe Rinaldo viene cacciato via dal campo per aver assassinato un altro crociato che lo aveva pesantemente offeso.

Il giorno del duello arriva e a causa della scomparsa di Tancredi viene sostituito da un altro crociato, al quale era venuto in soccorso un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra, ma con l’arrivo degli eroi sfuggiti dallo stratagemma della maga, liberati da Rinaldo, la situazione viene completamente rovesciata e la battaglia è finalmente vinta dai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare all'assalto Gerusalemme ma di notte Argante e Clorinda (di cui Tancredi è innamorato) incendiano la torre. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che la ama, Tancredi, che non l'aveva riconosciuta. Tancredi è afflitto a causa dell’uccisione della donna che amava. Tancredi è tentato dal suicidio e solo l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, che sfortunatamente è prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme.


Carlo Maria M., Chiara G., Tania M.

venerdì 1 giugno 2007

Le Metamorfosi: poema epico mitologico


L’opera di Ovidio “Le metamorfosi” è un poema epico mitologico. Tale tipo di epica non ha come capostipite Omero, ma segue i testi del poeta greco Esiodo. Costui, originario dell’Asia Minore, visse ad Ascra, in Beozia (Grecia continentale), tra l’VIII ed il VII sec. a.C. Egli scrisse la “Teogonia” (generazione degli dei), in cui è delineata la storia del mondo dal caos primigenio alla nascita di generazioni di dei ed eroi.
Con la “Teogonia” si apre un ciclo mitologico che ispirò Ovidio nella stesura de “Le metamorfosi”.
Questo poema non si pone, quindi, sulla linea dell'epos eroico.
Grazie all’impegno implicato nella successione cronologica degli eventi ed alla selezione dei contenuti seguendo il criterio tematico del fenomeno delle metamorfosi, l’autore compone un affascinante quadro mitologico da considerare elemento innovativo nell’ambito della letteratura latina.


Ne "Le metamorfosi" uomini e creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata.
Il poema può risultare apparentemente disorganico e "barocco", in quanto segue, forse con eccessiva rigorosità, le norme della "varietas".
La natura è dipinta come animata e composta da miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma.
(foto: Bernini, Il ratto di Proserpina)

Bianca Maria D. G., Luna K., Francesca P.

giovedì 31 maggio 2007

Eneide, libro IV: Didone e la sorella Anna

Eneide, libro IV, vv. 1-53

1 At regina gravi iamdudum saucia cura
2 volnus alit venis, et caeco carpitur igni.
3 Multa viri virtus animo, multusque recursat
4 gentis honos: haerent infixi pectore voltus
5 verbaque, nec placidam membris dat cura quietem.
6 Postera Phoebea lustrabat lampade terras,
7 umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
8 cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
9 `Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
10 Quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
11 quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
12 Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
13 Degeneres animos timor arguit: heu, quibus ille
14 iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat!
15 Si mihi non animo fixum immotumque sederet,
16 ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
17 postquam primus amor deceptam morte fefellit;
18 si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
19 huic uni forsan potui succumbere culpae.
20 Anna, fatebor enim, miseri post fata Sychaei
21 coniugis et sparsos fraterna caede Penatis,
22 solus hic inflexit sensus, animumque labantem
23 impulit: adgnosco veteris vestigia flammae.
24 Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat,
25 vel Pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
26 pallentis umbras Erebi noctemque profundam,
27 ante, Pudor, quam te violo, aut tua iura resolvo.
28 Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
29 abstulit; ille habeat secum servetque sepulchro.'
30 Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.
31 Anna refert: `O luce magis dilecta sorori,
32 solane perpetua maerens carpere iuventa,
33 nec dulcis natos, Veneris nec praemia noris?
34 Id cinerem aut Manis credis curare sepultos?
35 Esto: aegram nulli quondam flexere mariti,
36 non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas
37 ductoresque alii, quos Africa terra triumphis
38 dives alit: placitone etiam pugnabis amori?
39 Nec venit in mentem, quorum consederis arvis?
40 Hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello,
41 et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;
42 hinc deserta siti regio, lateque furentes
43 Barcaei. Quid bella Tyro surgentia dicam,
44 germanique minas?
45 Dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda
46 hunc cursum Iliacas vento tenuisse carinas.
47 Quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
48 coniugio tali! Teucrum comitantibus armis
49 Punica se quantis attollet gloria rebus!
50 Tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis
51 indulge hospitio, causasque innecte morandi,
52 dum pelago desaevit hiemps et aquosus Orion,
53 quassataeque rates, dum non tractabile caelum.'

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Ma già la regina, tormentata da un profondo affanno,
nutre una ferita nelle vene, e un cieco fuoco la divora.
Il grande valore dell’eroe, la grande gloria della stirpe
le ritornano in mente: non dileguano, impressi nel cuore, il volto
e le parole; l’affanno non concede alle membra la placida quiete.
L’Aurora seguente illuminava le terre con la luce
Febea e aveva allontanato dal cielo l’umida ombra,
quando, già perturbata, parla alla concorde sorella:
“Anna, sorella, che sogni mi tengono sospesa e m’angosciano!
Che ospite straordinario è entrato nel nostro palazo,
quale mostrandosi in volto! Che forza nel cuore e nell’armi!
Credo davvero che sia – non è fede illusoria –
Di stirpe divina. Il timore accusa gli animi ignobili.
Quali fati lo hanno agitato! Che guerre sofferte narrava!
Se non fosse decisione irremovibile e fissa nel cuore
Di non volermi unire a nessuno con vincolo coniugale,
dopo che il primo amore m’ingannò e m’illuse con la morte,
se non avessi in odio il talamo e le fiaccole nuziali,
forse per questo solo potrei soccombere al peccato.
Anna, lo confesso, dopo la morte del misero sposo
Sicheo, e la casa insanguinata da fraterna strage,
egli soltanto ha scosso i miei sensi, e m’ha fatto
vacillare l’animo. Riconosco i segni dell’antica fiamma.
Ma voglio che prima la terra mi s’apra in un abisso,
e il padre onnipotente mi spinga con il fulmine tra le ombre,
le ombre del pallido Erebo e la notte profonda,
prima che ti violi, o Pudore, o scolga le tue leggi.
Quello che per primo mi unì a sé, mi rapì l’amore;
egli lo abbia con sé e lo serbi nel sepolcro”.
Detto ciò, riempì la vestedi dirotte lagrime.
Anna risponde: “O più cara della luce alla sorella,
ti consumerai sola e dolente per l’intera giovinezza,
e non conoscerai i dolci figli né i doni di Venere?
Credi che di ciò si curino le ceneri e i Mani sepolti?
Sia, un giorno nessun marito ti pierò affranta,
né in Libia, né prima in Tiro; hai spregiato Iarba
e gli altri capi che nutre l’Africa, terra
ricca di trionfi: resisterai anche a un amore gradito?
Non ti viene in mente nei campi di chi sei stanziata?
Da una parte città getule, stirpe invincibile inguerra,
e sfrenati numidi ti attorniano, e l’inospitale Sirti;
dall’altra una regione desolata dalla sete, e per largo tratto
i furenti barcei. Che dire delle guerre che sorgono da Tiro
e delle minacce del fratello?
Penso davvero che, auspici gli dei e propizia Giunone,
le navi iliache seguirono questa rotta col vento.
Quale vedrai questa città, sorella, e quale regno
Sorgere per tale connubio! Con l’aiuto delle armi dei teucri
Per quali grandi eventi si leverà la punica gloria!
Ma tu invoca il favore degli dei, e compiuti sacrifici,
prolunga l’ospitalità, e intreccia cause d’indugio,
mentre imperversa sul mare l’inverno e il piovoso Orione,
e le navi sono sconnesse, e il cielo è tempestoso”.

(trad. Luca Canali)

lunedì 28 maggio 2007

Gerusalemme liberata: proemio e dedica

Torquato Tasso
Gerusalemme liberata
Proemio e dedica (I, ottave 1-5)


Canto l'arme pietose e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.

O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte
d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.

Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che 'l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l'egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l'inganno suo vita riceve.

Tu, magnanimo Alfonso, il quale ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l'onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i' porto.
Forse un dí fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch'or n'accenna.

È ben ragion, s'egli averrà ch'in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch'a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l'alto imperio de' mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t'apparecchia a l'armi.

domenica 27 maggio 2007

Apollonio Rodio, Omero e Virgilio

Dello straordinario successo dell’epos di Apollonio è riprova evidente la ricezione di cui ha goduto il suo poema nella ormai unificata letteratura ellenistico-romana di età cesariana, augestea, flavia. Varrone Atacino, coi suoi Argonautae, rielabora Apollonio e fa opera, a dire di Ovidio, durevolissima (Amores, I, 15, 21-22); Valerio Flacco in età flavia traduce o parafrasa pedissequamente, con gli otto libri di Argonautica, l’omonimo poema apolloniano. Ma è soprattutto Virgilio che ha sentito come decisiva l’influenza di Apollonio e che appunto attraverso il filtro di lui, e in forza di tale precedente, ha osato proporsi l’ambizioso fine di “imitare” Omero.
Il fatto perciò che un critico alquanto eccentrico come l’anonimo autore del trattato Sul sublie – in un contesto in cui vuole riaffermare la sublimità e la supremazia dei “grandissimi” (Pindaro rispetto a Bacchilide, Sofocle rispetto a Ione di Chio) – ponga la domanda “non preferiresti essere Omero anziché Apollonio?” (cap. 33,4), non è che una conferma dell’enorme prestigio conseguito dall’autore delle Argonauti che: dal momento che un paragone tra lui ed Omero appare comunque concepibile, anche se, ovviamente, si risolve a favore di Omero. È ben noto d’altra parte che un critico di prestigio come Quintiliano ha riconosciuto ad Apollonio la qualità altamente positiva della aequalis mediocritas (Inst., X, 1,54): termine che non va inteso come limitativo o spregiativo, bensì nel senso di una collocazione intermedia – sul piano stilistico – tra la ubertas, alla maniera di Pacuvio, e la gracilitas, alla maniera di un Lucilio [è la terminologia che adopera Gellio, Noctes Atticae, VI, 14,6].
[…]
La considerazione fatta prima, secondo cui senza Apollonio sarebbe impensabile Virgilio, sta, più di ogni altro raffronto, a dimostrare il ruolo che la creazione apolloniana ha esercitato sulla nascita di un’epica moderna. Ciò vale per la trama, per la scelta e la trattazione della materia, per l’equilibrio tra novità e tradizione nel campo linguistico: e vale soprattutto per la creazione di figure, quale quella di Medea, che svolgono una parte centrale nell’economia narrativa. È stato spesso osservato che Medea costituisce il precedente poetico di Didone. “Sembra quasi – osservò il Sainte-Beuve commentando l’entrata in scena di Medea – che il poeta, giunto a questo punto, si sia detto che questa passione amorosa [di Medea per Giaone] fosse la sola novità che Omero gli aveva lasciato nell’ambito della composizione epica” (De la Médée d’Apollonius [1845], in Potraits contempornains, V, Paris 1882, p. 365). In questo bel saggio il Sainte-Beuve svolge ampiamente il raffronto, tradizionale, tra le due eroine (Medea, Didone), ma si mostra anche consapevole dell’intreccio di modelli riconoscibili in Virgilio (“si è ispirato – scrive poco prima – nel concepire la sua bella regina, sia all’Arianna di Catullo [carme 64] che alla Medea di Apollonio”).
Luciano Canfora, Antologia delle letteratura greca, Laterza

venerdì 25 maggio 2007

Il cantare dei Nibelunghi: prima avventura vv. 1-8

Tedesco medioevale (alto tedesco medio)

Uns ist in alten mæren / wunders vil geseit
von heleden lobebæren, /von grôzer arebeit,
von fröuden, hôchgezîten, /von weinen und von klagen,
von küener recken strîten/ muget ir nu wunder hœren sagen.

Ez wuohs in Buregonden / ein vil edel magedîn,
daz in allen landen / niht schoeners mohte sîn,
Kriemhilt geheizen : / si wart ein schoene wîp.
dar umbe muosen degne / vil verliesen den lîp.

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Tedesco moderno

Viel Wunderdinge melden / die Mären alter Zeit
Von preiswerten Helden / von großer Kühnheit,
Von Freud' und Festlichkeiten. / von Weinen und von Klagen,
Von kühner Recken Streiten / mögt ihr nun Wunder hören sagen.

Es wuchs in Burgunden / solch edel Mägdelein,
Daß in allen Landen / nichts Schönres mochte sein.
Kriemhild war sie geheißen / und ward ein schönes Weib,
Um die viel Degen mußten / verlieren Leben und Leib.

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Traduzione italiana (Laura Mancinelli)

Nelle antiche leggende son narrate cose stupende
di guerrieri famosi, imprese immense,
di feste e di letizia, di lacrime e di pianto,
di lotte d'audaci guerrieri; di ciò udrete narrar meraviglie.

Cresceva tra i Burgundi una nobile fanciulla,
tale che in tutto il mondo non v'era cosa più bella,
si chiamava Crimilde: divenne una bella donna.
Per causa sua molti guerrieri avrebbero perso la vita.

giovedì 24 maggio 2007

La Gerusalemme liberata: il mago Ismeno

Il diabolico mago Ismeno crea un incantesimo e popola di demoni la foresta di Saron, da cui i crociati devono ricavare il legname necessario alla costruzione delle macchine da guerra per l’assedio.

Canto XII, ottave 1- 12

Ma cadde a pena in cenere l'immensa
machina espugnatrice de le mura,
che 'n sé novi argomenti Ismen ripensa
perché più resti la città secura;
onde a i Franchi impedir ciò che dispensa
lor di materia il bosco egli procura,
onde contra Sion battuta e scossa
torre nova rifarsi indi non possa.

Sorge non lunge a le cristiane tende
tra solitarie valli alta foresta,
foltissima di piante antiche, orrende,
che spargon d'ogni intorno ombra funesta.
Qui, ne l'ora che 'l sol più chiaro splende,
è luce incerta e scolorita e mesta,
quale in nubilo ciel dubbia si vede
se 'l dì a la notte o s'ella a lui succede.

Ma quando parte il sol, qui tosto adombra
notte, nube, caligine ed orrore
che rassembra infernal, che gli occhi ingombra
di cecità, ch'empie di tema il core;
né qui gregge od armenti a' paschi, a l'ombra
guida bifolco mai, guida pastore,
né v'entra peregrin, se non smarrito,
ma lunge passa e la dimostra a dito.

Qui s'adunan le streghe, ed il suo vago
con ciascuna di lor notturno viene;
vien sovra i nembi, e chi d'un fero drago,
e chi forma d'un irco informe tiene:
concilio infame, che fallace imago
suol allettar di desiato bene
a celebrar con pompe immonde e sozze
i profani conviti e l'empie nozze.

Così credeasi, ed abitante alcuno
dal fero bosco mai ramo non svelse;
ma i Franchi il violàr, perch'ei sol uno
somministrava lor machine eccelse.
Or qui se 'n venne il mago, e l'opportuno
alto silenzio de la notte scelse,
de la notte che prossima successe,
e suo cerchio formovvi e i segni impresse.

E scinto e nudo un piè nel cerchio accolto,
mormorò potentissime parole.
Girò tre volte a l'oriente il volto,
tre volte a i regni ove dechina il sole,
e tre scosse la verga ond'uom sepolto
trar de la tomba e dargli il moto sòle,
e tre co 'l piede scalzo il suo percosse;
poi con terribil grido il parlar mosse:

- Udite, udite, o voi che da le stelle
precipitàr giù i folgori tonanti:
sì voi che le tempeste e le procelle
movete, abitator de l'aria erranti,
come voi che a le inique anime felle
ministri sète de li eterni pianti;
cittadini d'Averno, or qui v'invoco,
e te, signor de' regni empi del foco.

Prendete in guardia questa selva, e queste
piante che numerate a voi consegno.
Come il corpo è de l'alma albergo e veste,
così d'alcun di voi sia ciascun legno,
onde il Franco ne fugga o almen s'arreste
ne' primi colpi, e tema il vostro sdegno. -
Disse, e quelle ch'aggiunse orribil note,
lingua, s'empia non è, ridir non pote.

A quel parlar le faci, onde s'adorna
il seren de la notte, egli scolora;
e la luna si turba e le sue corna
di nube avolge, e non appar più fora.
Irato i gridi a raddoppiar ei torna:
- Spirti invocati, or non venite ancora?
onde tanto indugiar? forse attendete
voci ancor più potenti o più secrete?

Per lungo disusar già non si scordade
l'arti crude il più efficace aiuto;
e so con lingua anch'io di sangue lorda
quel nome proferir grande e temuto,
a cui né Dite mai ritrosa o sorda
né trascurato in ubidir fu Pluto.
Che sì?. che sì?. - Volea dir, ma intanto
conobbe ch'esseguito era lo 'ncanto.

Venieno innumerabili, infiniti
spirti, parte che 'n aria alberga ed erra,
parte di quei che sono dal fondo usciti
caliginoso e tetro de la terra;
lenti e del gran divieto anco smarriti,
ch'impedì loro il trattar l'arme in guerra,
ma già venirne qui lor non si toglie
e ne' tronchi albergare e tra le foglie.

Il mago, poi ch'omai nulla più manca
al suo disegno, al re lieto se 'n riede:
- Signor, lascia ogni dubbio e 'l cor rinfranca,
ch'omai secura è la regal tua sede,
né potrà rinovar più l'oste franca
l'alte machine sue come ella crede. -
Così gli dice, e poi di parte in parte
narra i successi de la magica arte.

"Nel poema di Tasso anche l’elemento magico-infernale riveste una diversa dignità rispetto alla tradizione del poema cavalleresco. Esso non si configura più come mero espediente comico o d’intreccio avventuroso, bensì come motivo narrativo essenziale alla rappresentazione religiosa della universale battaglia tra le forze del bene e quelle del male, nucleo concettuale centrale nell’ideologia poetica dell’opera.
La lotta contro la devianza del peccato, infatti, non solo è colta nell’intima coscienza dei personaggi più intensi, ma viene rappresentata scenograficamente, a livello metafisico, nello scontro tra Cielo e Inferno, al fine di perseguire, nel “meraviglioso cristiano”, sia l’effetto di stupore per l’evento prodigioso relativo al carattere sovrannaturale delle forze in campo, sia quello didattico-religioso del “verosimile”, nella cui categoria la fede cristiana fa rientrare la rappresentazione di demoni e angeli in azione".
(tratto da Renato Filippelli – Fiammetta Filippelli, L’eredità letteraria, Simone)

Interessante anche questa lettura critica dell'episodio a cura di Fabio Giunta.

mercoledì 23 maggio 2007

L'Eneide: il proemio

"Il valore fondamentale del primo verso è proprio nel preciso tono omerico che con esso s'imprime al poema: dei due versi iniziali dei poemi omerici evidentiemente quello che più si avvicina è il v. 1 dell'Odissea: àndra moi énnepe, Mousa, polùtropon; allo àndra omerico corrisponde il virgiliano virum, che già nella tradizione epica latina Virgilio trovava consacrato nel Virum mihi, Camena insece versutum con cui Livio Andronico aveva tradotto il primo verso dell'Odissea. Ma qui virum è preceduto da arma: influenza del primo verso dell'Iliade in cui la prima parola, mènin, determina il particolare per cui si è distinto il protagonista? Certo, l'ira d'Achille è la caratteristica che lo contraddistingue: così gli arma sono l'aspetto in cui più rifulge la virtus di Enea.
[...]
Si è supposto che lo schema espressivo discenda da Ennio. Da notare che, mentre nei due inizi omerici la Musa è formalmente invocata (theà nell'Iliade e più esplicitamente Mousa nell'Odissea), qui bisogna attendere l'inizio della seconda sezione del proemio, il v. 8, per incontrare l'invocazione alla Musa: Musa, mihi causas memora. Di qui nei nostri maggiori poemi rinascimentali l'abitudine di separare l'invocazione alla Musa dalla protasi vera e propria".
Ettore Paratore

martedì 22 maggio 2007

Lucano e gli dèi

"Non v’è quasi asserzione nella Pharsalia che non sia puntualmente contraddetta in altri passi del poema: gli esempi più cospicui di questa scissione sono nella concezione religiosa, nel sogno del passato, nell’ideale politico. Ci si è vanamente sforzati di rivendicare una sia pur incrinata coerenza nella religiosità di Lucano: ma egli nomina gli dèi prevalentemente per revocarne in dubbio l’esistenza, o per negarla.
Certo gli dèi ricorrono di frequente nel corso del poema, ma solo come elementi automatici dello stile epico, tòpoi svuotati d’ogni pregnanza, quando non siano aggrediti dal rancore dei mortali negletti e perseguitati. Anche chi ipotizza la sostituzione della Fortuna alle tradizionali divinità dell’Olimpo, dà solo un nome solenne a una casualità non ferreamente determinata, che sola muove gli individui e le turbe, i fenomeni naturali e politici; ad essa si sommano, o si alleano, condizionandola, gli interessi, i giudizi, gli affetti degli uomini. Non mancano, nel poema, la demistificazione e la spiegazione razionale di fenomeni apparentemente sovrannaturali: così gli ancili, rapiti dal vento ad altri popoli, e fatti cadere come dono divino ai piedi del re Numa, e poi imbracciati dai sacerdoti Salii (IX, 474-80). Un Lucrezio redivivo avrebbe consentito allo scetticismo di Lucano: né è un caso che esso abbia suscitato a distanza di secoli l’elogio di Voltaire".

Luca Canali

lunedì 21 maggio 2007

L'Orlando furioso: i temi dell'eroismo e della pazzia.

Nel rifarsi a fonti da lui ben conosciute e amate, Ariosto infonde nuova vitalità alle avventure cavalleresche, nelle quali vede esemplificati tanti comportamenti sociali. La sua ironia non ha come obiettivo il mondo cavalleresco , ma più in generale le incoerenze dell’agire umano, del quale le “imprese” del poema costituiscono l’immagine fantastica. Attraverso le vicende dei suoi eroi, attraverso una serie di interscambi tra mondo immaginario e mondo reale, l’Ariosto ci svela l’ambivalenza dei modi di essere dell’uomo, e lo fa con gioioso distacco e insieme con affettuosa partecipazione.
Il tema dell’eroismo percorre l’intero poema, specialmente gli episodi di guerra, e trova il suo culmie nello scontro decisivo tra campioni cristiani e saraceni a Lipadusa (dove muore da prode Brandimarte) e nel duello finale tra Ruggiero e Rodomonte. In tale contesto il poeta ci dà una vigorosa rappresentazione dei caratteri più seri e terribili: evidente è la sua prospettiva aristocratica, che distingue nettamente i cavalieri dalle masse anonime degli altri combattenti, semplice carne da macello spietatamente sottoposta agli scempi più sanguinosi; netta è anche la distinzione tra il mondo “negativo” dei pagani e quello “positivo” dei cristiani, anche se si danno scambi di ruolo e complicità tra i cavalieri dei due campi. Ma il valore e la forza dei guerrieri, quando superano certi limiti, possono trasformarsi nel loro contrario, in pazzia bruta e animalesca, priva di qualsiasi controllo e coscienza.
All’eroismo si affianca così la pazzia, anch’essa diffusa in tutto il poema (fin dal titolo, con l’aggettivo furioso). In primo piano, ovviamente, è la follia di Orlando, eccessiva e paradossale, perché colpisce il cavaliere che dovrebbe essere il “savio” per eccellenza, l’eroe più puro e perfetto di tutta la tradizione. Ma la pazzia, in modi meno rovinosi, minaccia molti altri personaggi: essa coincide con il perdersi, con il lasciarsi trascinare da illusioni che impediscono di riconoscere le cose nella loro realtà. Alle radici di questa insania, che è carattere costitutivo dell’uomo, c’è il desiderio di oggetti irraggiungibili e, soprattutto, il desiderio amoroso.
Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, Einaudi

domenica 20 maggio 2007

Callimaco, Apollonio Rodio e il poema epico.

Callimaco ebbe animo incline alle contese e alle polemiche letterarie. Nel Giambo XIII, rivolgendosi ad Apollo e alle Muse, il poeta si difende dall'accusa di polueidìa, di trattare i generi letterari più diversi. […]
Ma gli avversari non rimproveravano a Callimaco soltanto la varietà dei generi letterari; gli rivolgevano un'accusa assai più insidiosa: lo accusavano di esser "poeta di pochi versi", di saper comporre soltanto brevi carmi, di non aver vigore e lena per comporre un vero poema. Chi erano gli avversari di Callimaco? Un tempo si credeva, sulla fede di varie testimonianze antiche, che l'unico avversario fosse Apollonio Rodio. Un papiro egiziano, pubblicato in Italia (Scholia Florentina), c'informa che gli avversari erano parecchi: Asclepiade, Posidippo, il Peripatetico, Prassifane di Mitilene. Manca, anzi, proprio Apollonio; ma nel papiro c'è spazio ancora per parecchi nomi, così da far credere che anche Apollonio dovesse essere nominato.
Asclepiade aveva esaltata in un famoso epigramma che ci è rimasto, la Lide di Antimaco. Ad Asclepiade faceva eco, in un altro epigramma, l'amico Posidippo. E Apollonio Rodio non doveva giudicare diversamente: egli non solo imitò da vicino alcuni versi di Antimaco, ma aveva dedicato uno scritto allo studio grammaticale di questo poeta (Su Antimaco), come sappiamo da un papiro. A tutti costoro si oppose Callimaco, che, in netto contrasto con giudizi così favorevoli, definiva la Lide, "opera grossa e non ben lavorata".
Platone aveva molto apprezzato Antimaco, quando tutti ad Antimaco preferivano Cherilo di Samo. E, quando il poeta era morto, aveva mandato a Colofone il suo scolaro Eraclide Pontico a raccoglierne le opere, perchè non andassero perdute. Ma nemmeno il giudizio favorevole di Platone impressionava Callimaco: egli affermava senza ritegno che Platone «non era capace di giudicare i poeti».
Callimaco è il primo poeta greco che non vuole insegnar nulla a nessuno, che si propone come fine l'arte per l'arte, che ha chiaro il concetto dell'autonomia dell'arte dalla morale: qui è tutto il valore della sua polemica contro Platone e gli altri esaltatori di Antimaco. Callimaco trattò spesso di poetica affrontando anche un'altra questione. Dice un suo epigramma: «Io odio il poema ciclico, né mi piace la via che conduce qua e là molti; odio anche l'amato infedele; non bevo alla fontana pubblica. Detesto tutto ciò che è popolare». Se anche il così detto "ciclo epico" risale a Zenodoto, qui Callimaco, condannando il «poema ciclico», non allude soltanto ai continuatori di Omero che costituivano il «ciclo», ma allo stesso Omero: egli condanna qualunque poema continuato, che racconti diversamente, con tutti i suoi particolari, una storia o un mito.
[…]
Alla polemica letteraria si riferiva anche l'Ibis: una lunga serie d'imprecazioni contro Apollonio Rodio, al quale si auguravano le più terribili sciagure dei personaggi della storia e del mito. Ma dell'Ibis non abbiamo nessun frammento. E nemmeno può darcene un’idea il poemetto di Ovidio dallo stesso titolo: Ovidio è un imitatore che vuol essere originale, non è un traduttore.
[…]
Per la sua poetica da lui affermata più volte con vigore e con sincera convinzione, Callimaco merita un posto nella storia delle idee estetiche e del gusto. La sua poetica è nuova e originale. Prima di Callimaco, nessuno aveva osato proclamare l'inferiorità del poema «uno e continuato», di fronte al poemetto di pochi versi squisiti; nessun poeta greco aveva osato affermare che la sua arte era destinata non alla folla ignorante, ma agl’intendenti raffinati. Da questa nuova poetica il poema epico era irrimediabilmente condannato.
Ma Callimaco aveva ragione e torto insieme. Aveva indubbiamente ragione, quando giudicava il poema epico morto per sempre. Gli Argonauti, il poema epico di Apollonio, nonostante l’ammirevole rappresentazione dell’amore di Medea e qualche bel frammento di poesia qua e là, furono soltanto uno splendido, non inglorioso, fallimento. E, dopo Callimaco, in tutta la letteratura classica, un solo poema epico riuscì una vera opera d’arte: l’Eneide. Ma Callimaco ebbe indubbiamente torto, quando volle condannare anche l’epica del passato. Inevitabilmente un fiume dall’ampia corrente è meno puro delle purissime stille d’un sacro fonte: in un lungo poema come l’Iliade, è facile trovare parti stanche, poco poetiche o impoetiche; è molto più facile che in una breve lirica. Ma sarà Omero meno poeta per questo? E sarà minor poeta del poeta perfetto d’una breve lirica?

Gennaro Perrotta, Disegno storico della letteratura greca

sabato 19 maggio 2007

Le Metamorfosi: la trama

Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della creazione dell’uomo: il diluvio universale e la rigenerazione del genere umano grazie a Deucalione e Pirra segnano il passaggio dal tempo primordiale al tempo del mito, degli dèi e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci: di Apollo e Dafne, con la metamorfosi di questa in lauro; di Giove e Io, custodita da Argo coi suoi cento occhi (I); di Fetonte, che precipita col carro del sole e provoca l’incendio del mondo (II); di Atteone tramutato da Diana in cervo e sbranato dai suoi cani; di Narciso, che sdegna l’amore di Eco e si consuma d’amore per se stesso; dell’empio Penteo punito da Bacco (III). Segue poi l’amore tragico di Piramo e Tisbe, quello di Salmacide per Ermafrodito; Perseo che salva Andromeda dal mostro marino (IV); il ratto di Proserpina e le metamorfosi di Ciane e Aretusa (V); poi le gelosie degli dèi, con la vendetta di Minerva su Aracne tramutata in ragno; con l’eccidio dei figli di Niobe; la cupa storia di Tereo, Procne e Filomela (VI); gli incantesimi di Medea; l’equivoco tragico di Cefalo e Procri (VII); il volo fatale di Dedalo e Icaro; Meleagro e la caccia al cinghiale calidonio; la pietà premiata di Filemone e Bauci e l’empietà punita di Erisittone (VIII); le imprese di Ercole e l’amore incestuoso di Biblide (IX); poi la vicenda di Orfeo e Euridice che incastona altre storie d’amore: Ciparisso, Giacinto, Pigmalione, Mirra, Venere e Adone, ecc. (X). Con le nozze di Peleo e Teti, cui segue la patetica storia d’amore coniugale di Ceice e Alcione (XI), siamo ai margini della fluida cronologia mitica: i personaggi della guerra troiana cin introducono nella storia per arrivare fino all’età di Augusto.
Abbiamo quindi le imprese di Achille e la battaglia fra Lapiti e Centauri (XII); poi la contesa per le armi fra Aiace e Ulisse, la serie dei lutti troiani e l’amore di Polifemo per Galatea (XIII). Sulle tracce dell’Odissea e poi delle vicende di Enea (anche Ovidio vuol comporre una sua piccola Eneide, senza sovrapporsi al testo virgiliano) la scena si sposta nell’antico Lazio, con le sue saghe e le sue divinità agresti (Pomona e Vertumno). Ormai siamo a Roma coi suoi re (XIV): mediante Numa è introdotto Pitagora e il suo lungo discorso sulla metamorfosi come legge universale (che dovrebbe costituire la base filosofica del poema); l’apoteosi di Cesare, ultimo degli Eneadi, e la celebrazione di Augusto concludono questa “storia del mondo” (XV), mentre gli ultimi versi proclamano l’orgogliosa sicurezza del poeta di aver attinto l’immortalità della fama.
Conte - Pianezzola, Storia e testi della letteratura latina, Le Monnier

venerdì 18 maggio 2007

La morte di Orlando

La morte di Orlando

CLXXIII
Orlando sente che la morte lo invade,
dalla testa sul cuore gli discende.
Sotto un pino se ne va correndo,
sull’erba verde s’è coricato prono,
sotto di sé mette la spada e il corno.
Ha rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha fatto perché in verità desidera
che Carlo dica a tutta la sua gente
che da vincitore è morto il nobile conte.
Confessa la sua colpa rapido e sovente,
per i suoi peccati tende il guanto a Dio.

CLXXIV
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Sta sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con una mano s’è battuto il petto:
“Dio! Mea culpa, per la grazia tua,
dei miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che ho commesso dal giorno che son nato
fino a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli dal cielo sino a lui discendono.

CLXXV
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso la Spagna ha rivolto il viso.
Di molte cose comincia a ricordarsi,
di tante terre che ha conquistato il prode,
della dolce Francia, della sua stirpe,
di Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non può frenare lacrime e sospiri.
Ma non vuol dimenticar se stesso,
proclama la sua colpa, chiede pietà a Dio:
"Padre vero, che giammai smentisci,
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!".
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte.
Chanson de Roland, lasse CLXXIII-XLXXV
(traduzione di G. Ruffini)

giovedì 17 maggio 2007

Heinrich Schliemann (7)


In preda a una grande eccitazione Schliemann intraprende lo scavo. Venne alla luce uno strato di pietre che erano state certamente utilizzate, dopo l’inumazione dei cadaveri, come altari per i sacrifici. A sei metri di profondità, lo scavatore giunse finalmente sul pavimento delle nicchie. Lì giacevano quindici cadaveri tutti ricoperti di paramenti d’oro di una straordinaria ricchezza.
Schliemann si trova di fronte ai resti dei re e delle regine di Micene. I visi degli uomini sono ricoperti di maschere d’oro che ricalcano fedelmente i lineamenti dei defunti. Il petto dei morti è ricoperto di foglie d’oro decorate con spirali. I vestiti delle regine e delle principesse sono anch’essi coperti d’oro. In una tomba con tre cadaveri trovano settecento lastre d’oro di un dito di lunghezza, che probabilmente ricoprivano il tessuto dei vestiti come le squame ricoprono un pesce.
Poi vi erano braccialetti, orecchini, diademi, spille d’oro con teste di cristallo di rocca, pietre preziose, sigilli appesi al collo e incisi con raffigurazioni di animali o di scene di vita quotidiana. Non si potevano contare tutti i capolavori che uscivano da queste sepolture!
Oltre ai gioielli, vi era poi tutto il corredo funerario: vasi in argilla, in oro, in bronzo, in argento, cofanetti, spade, cinturoni e così via.
Il telegramma spedito al re di Grecia testimonia l’entusiasmo trionfante di Schliemann:

A Sua Maestà il Re Giorgio degli Elleni,
Con estrema gioia, annuncio a Sua Maestà che ho scoperto le tombe che la tradizione, di cui Pausania si fa portavoce, indicava come le sepolutre di Agamennone, di Cassandra, di Eurimdone e dei loro compagni, tutti uccisi durante il pasto offerto da Clitennestra e dal suo amante Egisto. Erano circondate da un doppio cerchio parallelo di lastre che può solo essere stato eretto in onore dei suddetti personaggi. Ho trovato nelle sepolture tesori immensi fatti di oggetti arcaici in oro puro. Questi tesori bastano da soli a riempire un grande museo che sarà il più bello del mondo e che, durante i secoli a venire, porterà in Grecia migliaia di stranieri provenienti da tutti i paesi del mondo.
Poiché lavoro per puro amore della scienza, non ho naturalmente alcuna pretesa riguardo a questi tesori che do con vivo entusiasmo alla Grecia. Voglia Iddio che diventino la pietra angolare di una immensa ricchezza nazionale
Micene, 16-28 novembre 1876.
Heinrich Schliemann


Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi

mercoledì 16 maggio 2007

Odisseo, l'uomo polytropos (2)


Ma c’è un ultimo aspetto in questi versi da mettere in evidenza: la definizione di Odisseo come “eroe multiforme” (v. 1). “Multiforme” è l’aggettivo con cui il traduttore ha scelto di rendere una parole greca assai rara e di difficile interpretazione: polytropos, che significa alla lettera “dai molti giri” (da polys, “molto” e trépein, “volgere”, “girare”). Cosa volesse dire esattamente il termine era questione giù discussa dagli antichi, che avevano avanzato due ipotesi. Una prima soluzione consiste nel leggere nel verbo trépein (nell’accezione di “volgere”) un riferimento al viaggio: Odisseo polytropos sarebbe dunque “l’uomo che ha viaggiato a lungo”, che ha cambiato costantemente direzione alla prua della sua nave sotto la spinta di venti opposti. Questa interpretazione pone tuttavia un problema: l’aggettivo non aggiungerebbe in questo modo nessuna nuova informazione rispetto a quanto si specifica subito dopo, e cioè che Odisseo “tanto vagò" (vv. 1-2).
Meglio dunque ricorrere alla seconda ipotesi, che interpreta polytropos come “ingegnoso”, “dai molti espedienti”. Il poeta sottolineerebbe così l’astuzia, l’intelligenza dell’eroe, che è in effetti una delle sue caratteristiche più note e rilevanti. Una conferma a questa interpretazione ci viene dal libro 10 dell’Odissea, nell’unico altro passo del poema in cui compare l’aggettivo polytropos. Lì Circe chiama Odisseo polytropos quando si accorge con stupore che su di lui non ha effetto la pozione che trasforma gli uomini in animali: l’accorto eroe si è infatti munito di un antidoto, un’erba magica indicatagli da Hermes.
Nella traduzione di cui ci serviamo polytropos è reso però con un “multiforme”. Si individua dunque un aspetto ben preciso dell’astuzia di Odisseo, ovvero la sua capacità di mutare aspetto: l’eroe ricorre più volte infatti nel poema all’arte del travestimento, o si inventa una falsa identità per mettere alla prova l’indole e il pensiero delle persone con cui entra in contatto.
Un antico commentatore dell’Odissea, il monaco bizantino Eustazio, paragonava Odisseo a un polipo, che per i Greci è l’animale astuto per eccellenza: possiede infatti la capacità di mimetizzarsi, assumendo il colore dell’ambiente che lo circonda e degli oggetti a cui si attacca; secerne inchiostro, con cui si nasconde al nemico; organizza trappole efficaci per catturare i pesci di cui si ciba, servendosi dei suoi lunghi tentacoli. I Greci chiamavano il polipo polyplokos, “dalle molte pieghe”, in riferimento ai numerosi tentacoli che lo dotano di infinita mobilità; una definizione assai vicina a quella di polytropos, “dai molti giri”.
Il paragone tra Odisseo e il polipo, suggerito da Eustazio, ci fa capire cos’era per i Greci la metis, l’astuzia: un’intelligenza pratica, l’accorta prudenza che consiste nel sapersi adattare a ogni situazione attraverso la mutevolezza. La metis si realizza dunque nella polimorfia, nella capacità di cambiar forma, nell’essere, all’occorrenza, “doppi”, ordendo trappole sotto apparenze rassicuranti.

D. Puliga, C. Pazzini, La memoria e la parola, Le Monnier
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in foto: testa in marmo di Ulisse (4-26 d.C.), dal Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga

martedì 15 maggio 2007

Odisseo, l'uomo polytropos (1)

Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide la città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell’animo suo,
per salvare la propria vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o figlia di Zeus.
(trad. G. A. Privitera)
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Abbiamo già visto nell’Iliade quali sono gli elementi costitutivi della protasi: l’invocazione alla Musa, alla quale l’aedo chiede di ispirare il suo canto, e la presentazione del tema, dell’oggetto del canto, in questo caso il ritorno di Odisseo.
La protasi fornisce anche una prima presentazione del personaggio, di cui vengono messe in rilievo alcune caratteristiche fondamentali. Odisseo è un uomo che ha viaggiato a lungo (“che tanto vagò", vv. 1-2); il suo vagare lo ha reso profondo conoscitore di luoghi e popoli diversi (“di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri”, v. 3), ma gli è costato anche infinite sofferenze ("molti dolori patì sul mare nell'animo suo", v. 4). Delle numerose tappe in cui si articola il suo nòstos viene ricordata la sciagurata sosta nell’isola di Trinachia, quando i compagni dell’eroe, spinti dalla fame, scannarono e mangiarono gli animali sacri al dio Sole, empietà che costò loro la vita (vv. 6-9; il solo a salvarsi dalla vendetta divina è Odisseo. La breve menzione di questo episodio nella protasi è dunque funzionale a mettere in rilievo un’ulteriore caratteristica dell’eroe, ovvero la sua religiosità, il rispetto per le norme divine che contraddistingue sempre il suo agire.
D. Puliga, C. Pazzini, La memoria e la parola, Le Monnier

domenica 13 maggio 2007

La famiglia divina (1)

Se gli dei dell’epica avevano in precedenza rappresentao fenomeni naturali e se avevano avuto a che fare con gli animali, Omero l’ignora del tutto. Se abbiano avuto degli antenati e si collochino nel corso di una teogonia (dal greco theos, dio e genos, stirpe) egli l’ignora altrettanto. I miti di Esiodo o di Eschilo sono estranei al temperamento di Omero. Ed è già tanto se egli fa allusione, casualmente, a lontane guerre tra gli dei, che, in questo caso, sembrano ribellioni casuali e quasi dimenticate (Il., I, 399 sgg.; V, 381 sgg.). L’ordine regna presso gli dei omerici e Zeus lo garantisce.
Zeus è il re. In principio il mondo è stato diviso tra lui e i suoi fratelli, Ade e Poseidone, ma egli è il maggiore e comanda. Nonostante le vivaci proteste, Poseidone accetta i suoi ordini (Il., XV, 211: “Ebbene, d’accordo, per questa volta, malgrado sia adirato, mi piegherò”). Quanto agli altri dei, devono solo obbedire. Era è sua sposa, Atena figlia solo sua, nata dalla sua testa; Apollo e Artemide, Afrodite, Ares, Efesto, sono suoi figli; egli è il padre sovrano. Ma, cosa strana, questa stessa autorità si presenta in Omero senza la benchè minima maestà.
In una certa misura, l’autorità di Zeus consiste nella forza. All’inizio del canto VIII dell’Iliade, quando Zeus vieta agli dei di intervenire nella guerra, minaccia di colpirli e parla di gettarli nell’”oscuro Tartaro”; poi sostiene che, se anche tutti gli dei si appendessero a una catena d’oro e tirassero, non riuscirebbero a trascinare via Zeus dal cielo. Mentre lui potrebbe sollevare in aria la terra, il mare e tutti gli dei messi insieme (VIII, 5-27). Questa prova da baraccone si addice a un saltimbanco più che a un dio supremo.
Ed è soprattutto sorprendente che Zeus debba continuamente richiamare all’ordine la sua famiglia, sempre pronta a disubbidire. Ci sono, nei suoi comportamenti, tratti realistici che sfiorano la commedia. Quella che più teme, come la maggior parte degli uomini, è la moglie, e la sua prima reazione, nel primo canto dell’Iliade, quando Teti chiede il suo aiuto per Achille, è di rispondere: “Ah, brutto affare se tu devi mettermi in contrasto con Era, il giorno in cui verrà a provocarmi con parole ingiuriose! Anche senza motivo quella viene ad attaccare briga con me davanti agli dei immortali, sostenendo che io aiuto i Troiani nei combattimenti!” (518-521). Il bello è che Era, appena appare, sospetta subito qualcosa, protesta, interroga e cede, alla fine, soltanto alle minacce. Occorre che Efesto si dia da fare per placare la scenata familiare e ristabilire il buon umore generale.

Jacqueline de Romilly, Omero (1998)

venerdì 11 maggio 2007

Heinrich Schliemann (6)


Ormai Schliemann è divorato dal demone dell’archelogia e, dopo i brillanti risultati conseguiti a Troia, non intende minimamente fermarsi nella sua ricerca.
Riparte per Micene, dove riprenderà il lavoro interrotto nel 1874. Siamo alla fine di luglio del 1876. La grande campagna di scavi nel palazzo di Agamennone sta per iniziare.
Pausania affermava che le tombe a cupola che si trovavano nei pressi della cittadella di Micene contenevano i tesori dei figli di Pelope. I vecchi del paese, a loro volta, raccontavano che un pascià turco aveva scavato all’inizio del secolo nella cosiddetta tomba di Atreo e scoperto quantità impressionanti di oggetti d’oro. Omero descriveva Micene come una città favolosamente ricca. Tutto quindi lasciava supporre che gli scavi sarebbero stati coronati da notevoli successi.
Rileggendo Pausania, Schliemann si persuade che le tombe dei re di Micene erano all’interno del muro di cinta dell’acropoli, dietro la porta dei leoni. Era proprio in quel punto che conveniva concentrare gli sforzi e aprire le prime trincee. Così il lavoro iniziò.
A una profondità compresa tra i tre e i sei metri, Schliemann scopre tre pietre tombali coperte da rilievi che rappresentano uomini armati disposti su carri e impegnati a cacciare o a combattere. Presto altre due stele si aggiungono alle tre precedenti.
Poi ecco che viene alla luce una doppia fila di lastre di pietra disposte parallelamente, che formano un vasto cerchio all’interno del quale sorgevano le stele funerarie. Questo cerchio rinchiude senz’altro le tombe dei re di Micene (in fotografia).
La Società archeologica greca fece trasportare al museo locale di Charvati le stele scoperte da Schliemann. Non appena queste furono rimosse dal terreno, la sorpresa dell’archeologo fu grande: le stele non erano poggiate sulla roccia ma su uno strato di terra che riempiva delle nicchie scavate perpendicolarmente nella roccia stessa. Se ne potevano contare cinque.
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi

giovedì 10 maggio 2007

Mistica tirtaica e mistica omerica

Vi trascrivo un brano che spiega le differenze tra la concezione dell’eroismo di Omero e quella di Tirteto.
Un brano che esalta Omero e forse deprime troppo la poesia di Tirteo. Ma si tratta in gran parte sono giudizi condivisibili e acuti.

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Due grandi maestri ebbe la Grecia, Omero ed Esiodo, esaltatore dell’eroismo il primo, della giustizia il secondo. Tirteo s’avvicinava piuttosto a Omero che a Esiodo, almeno nella maggior parte dei frammenti che ci sono pervenuti (ma un accenno alla necessità della giustizia c’è nel frammento di un’elegia, che doveva portare il titolo di Eunomia). Motivo fondamentale delle elegie è infatti questo: siano coraggiosi i giovani, combattano vigorosamente, non fuggano mai: bello è morire in battaglia, miserevole la vita del vile ch’è fuggito e dovrà andarsene in esilio. Tuttavia c’è una diversità profonda tra Omero e Tirteo: ed è diversità di concezione e di poesia.
Omero e Tirteo conoscono del pari gli àristoi, i nobili appartenenti alla classe politica imperante nella città: ma qual mirabile diversità e quale gradazione Omero sapeva scorgere (e quale mirabile molteplicità di motivi, di temi, di contrasti, di toni ne nasceva!) entro la classe politica! come emergevano sugli altri alcuni eroi: Aiace, Odisseo, Diomede, Sarpedone! E quale meraviglioso eroe d’infinita purezza, modello degli eroi, era quell’Ettore che pur era destinato alla sconfitta! E come sullo stesso Ettore s’alzava Achille! E com’era sostanziato di dolore o di malinconia l’eroismo di Ettore e d’Achille, e quale nuova ricchezza di poesia nasceva dalla rappresentazione del dolore magnanimo e della magnanimità dolorosa o melanconica! Tirteo invece quasi non vede che la classe, e ignora il dolore e la malinconia dell’eroe: “O giovani, su, combattete, fermi restando l’uno accanto all’altro”. L’individuo è quasi sommerso nella classe o nella città: non spicca, non s’alza, e se spicca, non ha un suo nome, un suo volto, un dramma suo proprio (e la poesia si fa monocroma, senz’ampio respiro). Poi: davanti a una scelta è posto l’uomo per Tirteo come per Omero. Ma si pensi alle parole di Ettore quando Andromaca lo prega di non scendere in campo, in nome del suo amore e di una serena vita nella casa: “Anch’io – dice Ettore – anch’io patisco come te: ma penso ai Troiani e alle Troiane che mi direbbero vile: e poi, da quando ho imparato a combattere davanti agli altri, l’animo mio stesso non mi permette di star lontano dal campo”. E si ricordinole parole di Sarpedone a Glauco: “Bella è la nostra vita, onorata, raffinata – dice in sostanza l’eroe – ma è breve, non immortale. E che vale il caduco a paragone dell’eterno? Dunque si rinunci alla gioia breve per la gloria eterna”. Dice invece Tirteo: “Miserevole è la vita del fuggiasco: sarà disonorato e mendico; bella è invece la sorte del valoroso: avrà vita gioconda e onorata, e avrà gloria dopo la morte. Dunque si rinunci alla miseria in vita e dopo la morte per avere la gioia in vita e gloria dopo la morte”. Al paragone della scelta magnanima di Sarpedone o d’Ettore o d’Achille, quella di Tirteo è scelta mediocre. Gli è che Tirteo sembra non conoscere gli dèi. La gloria per Omero veniva all’uomo dal dio, quando l’uomo si faceva simile al dio. Per Tirteo invece la gloria all’uomo viene dalla città. Sicchè l’eroe omerico obbedisce a un imperativo divino, il valoroso di Tirteo obbedisce a un comando della città. Per dire tutto in breve: c’è una mistica in Tirteo e c’è una mistica in Omero. Ma la mistica di Tirteo è una mistica politica, è una mistica della città che, mentre esalta, anche invilisce il sacrificio del cittadino, comandato, non spontaneo; la mistica di Omero è mistica religiosa che esalta e santifica senza deprimerlo il sacrificio dell’eroe, ch’è spontaneo e generoso.

A. e G. Maddalena, La letteratura greca, Bari, Laterza, 1960

martedì 8 maggio 2007

Il mondo epico e la storia: la realtà riscoperta (2)

In genere non si passa facilmente dalle grandi scoperte degli ultimi decenni alla spiegazione dei poemi e ci si deve accontentare di un vago entusiasmo suscitato davanti alla storia intravista attraverso la favola. Eppure, qualche volta, vi sono dei riscontri puntuali che stabiliscono uno stretto legame e una profonda coincidenza fra l’archeologia e l’opera letteraria. È il caso di vari oggetti e, naturalmente, di oggetti appartenenti a epoche diverse. Questi riscontri sono tanto più straordinari quando si tratta non di oggetti comuni, ma di oggetti pregevoli che Omero si sofferma a descrivere. Certi esempi sono celebri.
È questo il caso dell’elmo che porta Ulisse nel canto X dell’Iliade e che “era fatto di cuoio” e, all’esterno, “da una parte e dall’altra eran fissate bianche zanne di cinghiale, disposte con arte” (261-265): i ritrovamenti micenei ce ne hanno mostrato di simili. Un affresco del palazzo di Nestore a Pilo ce ne mostra un’immagine che risale al 1200 a.C. Un affresco di Acrotiri a Thera-Santorino, del 1480 a.C. circa, ce ne offre un’altra. Insomma, questo elmo di Ulisse, che è l’unico nel suo genere nominato nell’Iliade, è un vestigio molto antico e doveva essere già una rarità molto prima di Omero: ha attraversato i secoli e proprio noi possiamo, d’un tratto, verificare quanto sia valida quella sua descrizione.
La stessa cosa possiamo dire per quanto riguarda il grande scudo di Aiace, “simile a una torre”, fatto di sette strati di pelle di toro, ricoperti da un ottavo strato, in bronzo “Il., VII, 219-223): l’archelogia ce ne offre alcune immagini e, nel caso dell’affresco di Thera, lo mostra associato all’elmo con zanne di cinghiale. Ma i ritrovamenti archeologici ci svelano pure che questo genere di scudo era già quasi completamente scomparso all’epoca della guerra di Troia. E lo stesso capita con la coppa di Nestore, che Omero descrive con cura, come una rarità (Il., XI, 633-635): “Ornata di borchie dorate, con quattro anse, e due colombe d’oro beccavano intorno a ciascuna, da entrambi i lati; poggiata su due piedi”. Gli scavi di Heinrich Schliemann (1822-1890) ne hanno riportato alla luce una che le rassomiglia fortemente, sebbene questa abbia solo due anse. Questa coppa micenea praticamente non ha equivalenti nei ritrovamenti dei secoli posteriori. Quindi sembra proprio che, in tutti questi casi, siamo in presenza di oggetti di cui la tradizione ha conservato il ricordo, a causa della loro originalità o della loro bellezza, oggetti che poi la realtà ci ha infine restituito.

Jacqueline de Romilly, Omero (1998)

lunedì 7 maggio 2007

Il tesoro di Priamo (Eugenio C.)


Che fine ha fatto il tesoro di Priamo? Schliemann riuscì ad esportarlo segretamente in Grecia e per questo venne accusato dalla Turchia di esportazione illegale e costretto a pagare una forte multa; l'archeologo tuttavia pagò una somma maggiore per divenirne il proprietario, poi decise di donare il tesoro alla Germania, dove questo rimase fino alla seconda guerra mondiale. Il 6 marzo 1945 Adolf Hitler ordinò che fosse nascosto nelle miniere di sale di Helmstad, in previsione della sconfitta e per evitare che cadesse in mano ai Sovietici. L'ordine di Hitler non venne eseguito e il tesoro finì a Mosca.
Negli anni successivi i Russi smentirono che questo si trovasse nelle loro mani e così scoppiarono infinite polemiche; la prima conferma ufficiale della presenza del tesoro in Russia si ebbe nel 1993 da parte di Boris Eltsin, che, ospite ad Atene presso il capo di Stato greco, dichiarò che il tesoro si trovava a Mosca, al Museo Puskin. Nel 1994 una commissione di esperti di diverse nazioni confermò che si trattasse proprio dei ritrovamenti di Schliemann a Troia.
Attualmente quattro nazioni si contendono quel tesoro: la Turchia (dove è stato rinvenuto), la Grecia (erede della tradizione omerica), la Germania (a cui è stato donato dall'archeologo) e la Russia (dove ora si trova).


tratto da wikipedia

EUGENIO C.

sabato 5 maggio 2007

Heinrich Schliemann (5)

Ma il mondo greco non era limitato alla città di Priamo e di Ettore, alla città dove Paride, salpando dalle rive della Laconia, aveva porta la bella Elena. No, il mondo omerico era anche rappresentato dalla terra dei vincitori, da Micene, la città di Agamennone, e da Tirinto, sul golfo di Argolide. Dopo i successi ottenuti a Troia, su quelle terre Schliemann avrebbe concentrato i suoi sforzi.
All’estremità della pianura di Argolide, risalendo verso nord, laddove si biforcano le due strade che conducono a Corinto, sulla sommità di un colle incastrato tra due alte montagne, giace la fortezza di Micene.
I greci attribuivano la paternità della cittadella ai Ciclopi. Perseo e i suoi discendenti avevano regnato su questa imprendibile fortezza prima che il loro scettro passasse a Pelope, che aveva dato il nome al Peloponneso, ad Atreo e ad Agamennone.
Micene era degna dello scopritore di Troia, e a Micene Schliemann avrebbe aperto nuove trincee.
Alla fine di febbraio del 1874 iniziano i lavori. Si comincia con l’acropoli. Il secondo giorno dello scavo Schliemann scopre una piccola testa di mucca in argilla. Perché non pensare alla famosa Era “dagli occhi di mucca”? L’andamento dei lavori lascia ben sperare circa il felice esito degli scavi, ma il governo turco ha appena iniziato un processo contro Schliemann per ottenere la restituzione della metà degli oggetti scoperti e portati via da Troia.
Nel cuore del tedesco la passione per Omero va condivisa con l’amore per il denaro e le proteste di Schliemann si fanno aspre. La causa si protrae per un anno ma, alla fine, Schliemann è condannato a pagare una somma di 10 000 franchi aurei al governo turco come compenso per il danno recato al patrimonio nazionale.
Le cose si presentano mal, anche e soprattutto perché Schliemann ha in mente di proseguire gli scavi a Troia. Qualora si dovessero rompere i rapporti con i turchi, l’antico sogno di cercare i tesori in mezzo ai resti della mitica città di Priamo si dissolverebbe. Perciò Schliemann valuta attentamente la situazione e fa i suoi calcoli, da abile diplomatico e astuto commerciante. Per riacquistare prestigio e stima presso le autorità turche, occorre fare un gesto. È stato condannato a pagare 10 000 franchi aurei come indennizzo per i tesori sottratti al paese, manderà in compenso 50 000 franchi aurei al ministro della Pubblica Istruzione, che serviranno ad allestire il museo imperiale.
Il ministro si commuove
e Schliemann riacquista la fiducia del governo turco. Alla fine lo ritroviamo a Costantinopoli, dove sollecita un nuovo permesso di scavo a Hissarlik. Gli sforzi compiuti per ottenere questo nuovo permesso sono notevoli e, alla fine, hanno esito positivo: così, nell’aprile del 1876, Schliemann parte per i Dardanelli.
Il governatore locale, Ibrahim Pascià è meno sensibile del ministro della Pubblica Istruzione al bel gesto di Schliemann e si oppone con forza ai nuovi progetti del tedesco. La lite tra il governatore e l’archeologo è vivacissima ma non c’è nulla da fare.
Louis Godart, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi

venerdì 4 maggio 2007

Achille, l'eroe prediletto da Omero

"Il fuggitivo è forte,
ma più forte e più ratto è chi l'insegue"
Iliade, libro XXII (trad. Vincenzo Monti)
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"L’eroe principale dell’Iliade è sempre Achille, che raramente è dimenticato, anche quando è assente e inoperoso. Il poeta ha creato in Ettore una figura nobilissima di eroe quasi sempre saggio e temperato, affettuoso negli affetti familiari, eroicamente devoto alla sua patria. Ma né la calda simpatia che ogni lettore è tratto a sentire per Ettore, né la celebre fine dei Sepolcri foscoliani (E tu onore di pianti, Ettore, avrai…) deve indurci in errore: il poeta umanissimo è pur sempre un Greco, e il suo eroe preferito è un Greco, Achille, l’eroe molto più forte di Ettore, che ha preferito una vita breve e gloriosa a una vita lunga e senza gloria. L’Iliade è pur sempre il poema dei vincitori, non il poema dei vinti, se anche il poeta ha per i vinti talvolta ammirazione, quasi sempre umana compassione. Non senza ragione Alessandro, l’eroe più grande della storia greca, ammirò non Ettore, ma Achille; e di Achille si considerò l’incarnazione vivente, quando corse per il mondo incontro alla gloria e alla morte".
Gennaro Perrotta, Disegno storico della letteratura greca

giovedì 3 maggio 2007

Tirteo: "Giovani avanti! Combattete, fermi, a fianco a fianco"

Vi trascrivo un'altra elegia di Tirteo, la più bella a mio avviso.
Molti studiosi ritengono questa e l'altra elegia che già avete letto un'unica elegia. Questa sarebbe la seconda parte. In effetti potrebbe essere anche così. I punti di contatto sono molti. Leggetele una dopo l'altra e ve ne renderete conto.
E riflettete sempre sulle affinità e le differenze tra la poesia di Tirteo e quella di Omero.
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Giovani avanti: a fianco a fianco, fermi, combattete:
né infame cedimento, né paura,
ma grande e coraggioso fatevi il cuore in petto:
nessun amore per la vita in guerra!
E i vecchi che non hanno più agili ginocchia
non lasciateli indietro nella fuga,
i vecchi! È una vergogna se cade in prima fila
e giace un vecchio prima di voi giovani:
un vecchio dal capo bianco e dalle gote grigie
che il suo animo forte nella polvere
esala e copre i genitali insanguinati
con le mani – vergogna per chi guarda,
odioso a vedersi – e il corpo nudo. Ma tutto è bello ai giovani
finché si abbia di giovinezza amabile
il luminoso fiore: ammirevole agli uomini, amabile alle donne
da vivo, e bello se fra i primi cade.
Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo,
mordendosi le labbra con i denti.
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"In questa elegia abbiamo una rappresentazione visiva e non delle sentenze. L'originalità di Tirteo sta nell'idea etico-politica che trasforma in lui l'ideale dell'areté eroica in quello del sacrificio dell'individuo per la collettività: non è un oratore dalla voce sonante e fornito d'una straordinaria capacità d'infiammare gli altri, a cui presti parole in abbondanza l'amor patrio, come spesso è la poesia patriottica moderna. Non solo è da porre l'attenzione sull'accento morale e civico, ma anche sull'arte propriamente detta per la potenza della fantasia, per la capacità di rappresentare plasticamente, in uno stile semplice e disadorno, scene di guerra: mondo naturalmente limitato, monocorde, nel quale non entrano gli altri innumerevoli aspetti della natura, e ciò segna anche i limiti di quell'arte; ma in quel mondo la fantasia del poeta s'accende, i suoi occhi si riempiono d'immagini e queste si colorano di tutti i colori, con la varietà e la rapidità con cui cambia aspetto un campo di battaglia".
Adelmo Barigazzi